
Piccola visione / Porto San Giorgio e Fermo
Già dalla stazione degli autobus di Tiburtina, tra le persone che gravitano intorno alle corriere di vecchia e nuova generazione che andranno commosse verso l’Italia interna, si nota una gentilezza sconosciuta nella Tiburtina che sta dall’altra parte della strada, la Tiburtina della metro e dei treni. Lì mi hanno dato una spallata e risposto in malomodo; qui, dopo che prendo un caffè al bar, quando esco mi salutano addirittura in tre, record capitolino e forse mondiale del saluto da bar. In tre: il barista giovane, il cassiere anziano e un altro anziano non identificato, forse assoldato per battere il record.
Una volta sul bus, alla vicina cade un libro su Sebastião Salgado, e ne parliamo. È venuta da San Benedetto del Tronto a Roma apposta per la mostra.
Un ragazzo senegalese vede la coppa d’Africa: Senegal – Guinea. La seguiamo dal suo cellulare sia io che un altro passeggero. Mostro la mia foto con la maglietta di Kalidou Koulibaly, ed è subito “torcida” senegalese, clima da curva, mentre fuori scorre un’Italia bellissima della cui esistenza mi ero dimenticato.
Mi chiamano per lavoro, ma non si sente bene. Scrivo: “Scusami, sono un autobus ed ero in tunnel”. Un po’ Gregor Samsa e un po’ Transformer.
Tramonto di una bella giornata d’inverno. La litoranea fra San Benedetto del Tronto e Porto San Giorgio, tra mare e montagne, sembra una zona franca fra uomo e natura, un luogo in cui vige ancora l’incertezza: potrebbe addirittura vincere la seconda. E quindi anche il primo.
L’estate dev’esserci, la sento. Sarà nascosta dietro ai promontori, nei bar, o nelle farmacie con le file fuori, ma mi pare che potrebbe tornare già domani: comunque prima o poi tornerà.
Un po’ Corsica e un po’ Colombia, anche qui i bambini giocano a pallone nei piazzali delle chiese. Molti sono neri. Da dietro il vetro del pullman ci si può pure illudere, per un minuto, che tutte le cronache di questi anni siano remote, che d’ora in poi sia un passaggio indolore verso un paesaggio comune, facile.
All’arrivo mi viene a prendere Carlo. Invidio chi, come lui, riesce a pensare e parlare ad andamento lento, dire così in pochi minuti molte più cose di me che parlo veloce e accavallo i pensieri. Siccome sono a Porto San Giorgio per presentare un libro di viaggio, Carlo sa subito cosa raccontarmi. Mi racconta, allora, la sua vita durante la guerra nei Balcani e la fuga dalla Romania di Ceausescu, con stratagemmi odisseici per passare la dogane.
La libreria all’angolo è una presenza luminosa. C’è dentro aria di mare, che è a cento metri. La caffetteria è un’isoletta discreta che non ruba posto ai libri. Prendo un tè con Laura, la libraia che ho visto un’unica e breve volta sei anni fa a Buenos Aires. Anche con lei ci si racconta tanto e subito. Arrivano Stefano e un cliente di origine ecuadoriana. Il discorso cade su una delle meraviglie della Colombia: la “pega” (a Bogotà), o “cocayo” (sulla costa caraibica), ossia il riso che rimane attaccato alla pentola. Bruciaticcio, è la prelibatezza che si offre all’ospite, oppure l’oggetto di eterne liti fraterne nei pranzi di famiglia. Scopro che in Ecuador e Spagna ha un altro nome, ma non lo segno, e lo dimentico subito. Perché quello che scrivo qui l’ho scritto prima su un taccuino, altrimenti farei viaggi d’inchiostro simpatico.
Stefano e Laura ricordano un’amica colombiana: diceva: “cucino io”, lasciava la pentola sul fuoco e se ne andava. Tanto qualcuno, prima o poi, l’avrebbe spenta.
A cena da Laura, Stefano e le due figlie, Anita (nove anni) e Alice (quattro), apriamo con inesorabile, lenta allegri, una parentesi dopo l’altra, perché una cena può durare anche sei ore se si vuole. E noi si vuole, tutti e cinque più la gattina Flora (sei mesi) che resiste stoica fino alla fine, “scapuzziando”, ma sempre sull’attenti, vicino a noi.
Alcuni titoli lunghissimi di libelli, pamphlet e trattati che scriverò in futuro, ispirati dai temi toccati in questa cena:
“Storia dell’uomo che andò per lavoro dal Salento a Buenos Aires, e sull’aereo conobbe una cilena attraente che lo invitò a farle una sorpresa a Valparaiso, e lui dopo qualche tempo andò all’aeroporto Aeroparque e chiese un biglietto per Santiago, senza sapere che da Aeroparque partivano solo voli interni, così alla biglietteria, naturalmente, capirono Santiago del Estero, cittadina incandescente e un po’ desolata del nord del paese, e qui atterrò quell’uomo inconsapevole, e chiese: ‘Dov’è il mare’, e poi, non ricordo come, incontrò proprio lì la donna giusta, e ci fece due figli”;
“Cronaca della rissa sche sconvolse la fila per entrare a Tierra Santa, unico e pacchianissimo luna park cattolico del mondo, in quel di Buenos Aires, con tanto di signora che urla: ‘Neanche di Tierra Santa avete rispetto!’, perché, per la miseria, bisogna portare rispetto a un luogo con un Cristo pop-up di cartapesta che sorge dietro la collina in mezzo ai fuochi d’artificio”;
“Tecniche e trucchi della piccola barzellettiera Alice, che ti chiede dove cade l’uovo fatto dal gallo sulla montagna, e qui introduce uno strafalcione geografico – in Italia o in Spagna – e tu stai lì a pensare all’innegabilità della Francia e alla differenza fra barzelletta (seppur barzellettisima) e indovinello, così non ti viene in mente che il gallo non depone, ed è questo lo stratagemma della più infida delle barzellettiere”;
“Interpretazione allegorica di avvistamenti di caproni cattivi che vomitano sul ciglio della strada nel nord dell’Argentina, e possibilità di attribuire per tutta la cena urgenze di vomito a ogni cosa, compreso un orologio a cucù”;
“Fenomenologia della mia compagna che mette sempre, in ogni piatto un ingrediente ‘segreto’, e io lo so benissimo che è la curcuma, perché è sempre tutto giallo, ma almeno per un po’ faccio finta di non arrivarci”.
Durante tutta la cena nulla di umano è estraneo ad Anita È una sfida difficile spiegarle cos’è un attacco terroristico, ma sorprendentemente bella e facile quando c’è da raccontarle “Comizi d’amore” o “Una cosa divertente che non farò mai più”, oppure tradurre insieme in italiano il “Che, qué querés” di Buenos Aires.
Poi la chiacchiera prosegue con le solite cose: senso di appartenenza di una bambina di quattro anni per il quartiere de La Paternal e per la squadra dell’Argentinos Juniors, felici anatemi contro Berlusconi, Bolsonaro e Benetton, eccetera eccetera.
Ma mai, mai scadiamo in una sterile lamentela sul mondo, su nessuno dei nostri mondi. Per questo stiamo a tavola sei ore e non due: perché non si arriva mai al momento micidiale in cui ci si cruccia e si sospira.
Delle passeggiate a Fermo riporto solo alcuni appunti, perché ho pensato più che altro a stare bene in un giorno di sole:
- Al Palazzo dei Priori c’è una piccola edizione, credo quattrocentesca, della Divina Commedia, il cui titolo è “La visione. Poema di Dante Alighieri diviso in Inferno, Purgatorio e Paradiso”. La visione. Mi pare un titolo migliore.
- Sarà che ci faccio più caso, ma com’è che la Lega Nord negli ultimi anni ha aperto tante sedi nei punti strategici dei nostri centri storici? Dove ha preso i soldi per infestare le piazze di Acquaviva delle Fonti in Puglia, di Venafro in Molise, di Fermo nelle Marche e chissà quante altre?
- Al Parco del Girfalco, da un lato c’è la Croazia (o forse no, forse solo nuvole all’orizzonte), dall’altro i Sibilini innevati, e al centro una bambina che perde un dente, e lo annuncia alla madre, indecisa fra entusiasmo e afflizione. È in bilico fra commedia e tragedia (la visione!), ed è la madre che accorre disperata a spingerla verso la seconda.
La stessa bambina, più tardi e in un altro luogo di Fermo dove io mi arrampico e affanno felice, si consola del dente raccogliendo sassolini e lavando quelli che secondo lei sono più meritevoli di adozione.
Tags: argentina, buenos aires, Colombia, Dante, Fermo, Libreria La Perdigiorno, Marche, Parco del Girfalco, Porto San Giorgio
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