
Manifesto del viaggio disconnesso/ Valparaíso
Provo a liberarmi dalla condivisione di ogni cosa. Arrivo in Cile e basta un “Arrivato” perché da casa rispondano “Evviva!”. Come ai tempi degli sms. Meglio di una nota vocale sulla fila all’arrivo, sul freddo, su com’è andato il viaggio. Se rimarranno tracce, di questi momenti ne parleremo fra un mese in cucina. Altrimenti no, vadano a formare la mia scia.
Eppure all’arrivo a Valparaíso, accendo lo schermaccio e mi ritrovo a filmare e inviare due video: uno della gattona bianca che mi accoglie in camera; l’altro, addirittura, delle strade del Cerro Alegre che si arrampicano oltre la finestra. Video inutili, inefficaci. Cos’è scattato nel mio cervello, a me che fino a cinque minuti fa ero randagio e felice, e ora connesso e scialbo?
Spengo, e cambia tutto.
Non ho Maps, non seguo una pallina. Dei nostri viaggi rimarranno una pallina e i sorrisi di plastica su uno sfondo-hashtag. Di questo no. Ricordo i nomi delle strade. Dimentico l’orario e allungo il tempo. Cammino spedito come se sapessi dove andare, e mi ambiento molto prima sconnesso dalla zavorra.
Paolo Rumiz ha scritto “A piedi”, per bambini. L’ho sfogliato la settimana scorsa. Esce di casa e va dove gli pare. Io una mezza direzione ce l’ho, ma sentita con le mie orecchie, vista su una mappa dove una gatta bianca si strofinava senza ritegno. Tragitto corretto e definito da un operaio, una donna con il carrello della spesa e due studentesse. E meta che già prima di arrivare è più bella di quelle di Tripadvisor o Google Trip, meccanismi che esaltano il punto di interesse e dimenticano tutte le virgole, i due punti e i punti e virgola. Ora da randagio mi godo la punteggiatura di Valparaíso.
Mi piace. Oltrepassata la Plaza Sotomayor con il suo monumento improbabile a chi strappò il mare alla Bolivia, ecco i pesci mozzati, la frutta annerita e dolce, gli abitanti della strada, le pareti che fanno la spia, la musica venezuelana. L’ignoto ad ogni passo si trasforma in benessere. Meglio questo disordine che lo show room della gentrificazione perfetta. Meglio questi luoghi che non ti adescano, che non ti attirano alla foto facile.
Pesce e Cile: una bella storia. A pranzo leggo Erodoto. Non ho uno schermaccio a interrompermi, a richiamare la mia attenzione come uno smorfioso. È la lettura ora il mio continuum, non la connessione. E me la giostro come voglio, salto le dinastie, le armi di ogni reparto dell’esercito persiano, e vado agli aneddoti, agli intrighi e ai vaticini. Sono in Grecia 2500 anni fa, e faccio molto più parte di questo ristorante di Valpo di quanto fossi con la faccia esposta alla radiazione. Non abbasso gli occhi sullo schermo, non evito contatti umani che prima rifuggivo, che prima erano noiose parentesi alla dipendenza virtuale. E finisco a parlare. Purtroppo di Edu Vargas, pessimo ex attaccante cileno del Napoli. Ma parlo, e ascolto. Che zuppa, Edu.
Salgo al Paseo dell’Artilleria con la vecchia funicolare. Una bambina esulta all’arrivo: «Non siamo morti!». È vero, vai così! Per la prima volta vedo il Pacifico. Resisto e ritardo lo scatto. La classica foto che non rende, che si aggiungerebbe all’enorme database dei soli e delle lune, delle albe e dei tramonti, dei mari e dei deserti. Le foto che non rendono. Prima guardo: sembra ci siano due orizzonti e diverse acque, su cui si poggiano come in una “Guernica” oceanica navi disordinate su più piani. E poi container. Non tutte le città di mare hanno la possibilità di nascondere dal panorama questi scatoloni colorati. Alcuni diventeranno lamiere e pareti di case. Come alla Boca. Dicono che qui si preferiscano materiali precari, perché il terremoto è sempre alle porte ed è meglio vestire leggere le proprie case. Dicono. Se Erodoto va avanti con un “dicono” dopo l’altro non vedo perché non possa farlo io.
Qui, sul belvedere dell’Artilleria, si vendono magnetini che con uno strato di carta sopra l’altro esprimono benissimo le tremila dimensioni di questa città pop-up.
Poi i murales. Almeno la metà mi fa sbadigliare: pseudo denunce, mickymouse e donaldtrump, personaggi che si strizzano le chiappe e si strangolano, poliziottacci, marijuana, indigenismo di facile digestione. I “free walking tours” li esaltano. La nostra guida dice di un mural: «Questi occhi ovunque che significheranno? Che ci stanno controllando? O che dobbiamo tenere gli occhi aperti?». E io sbadiglio di artisti della mia generazione che non credo abbiano molto da dire. Come quelli condivisi in rete: “Con queste immagini l’artista denuncia la società attuale”. Scialbi figli di un Banksy minore.
Casa di Neruda: “la Sebastiana”, dal nome del costruttore spagnolo Sebastián Collado. All’entrata strarnazzano tre turisti: come faranno senza poter scattare foto (e io, per ripicca verso di loro, le scatto proprio qui che sono proibite).
Pablo sedeva su una poltrona che chiamava “la Nube” e ragionava: L’Oceano Pacifico/ straripava dalla mappa./Non vi era posto dove metterlo./Era così grande, disordinato/ e blu che non entrava da nessuna parte./Così lo lasciarono davanti alla mia finestra.
Invitava gli amici, diceva loro che proprio in quel palazzo lì di fronte era solita prendere il sole una donna nuda, e gli allocchi restavano per ore a scrutare. Di questa nobile menzogna che riesce a dare un senso a un pomeriggio, io sono erede di Pablo. Chiedo scusa agli amici: era vera solo quella del topless dal balcone del salotto, non quella in tanga dalla finestra di camera mia.
Le pareti dei bagni sono tutto un buco. Che c’è di male nel farsi vedere?
Nello studio c’è il ritratto di Walt Whitman. Un operaio chiese a Neruda: «È suo padre?» E lui: «Sì, mio padre letterario».
Voi di chi appendereste il ritratto?
Come sarò da vecchio? Cerco per strada vecchi a cui assomigliare.
A Valparaíso prendo appunti e mi sento sincero, perdo materiale in eccesso grazie ai piedi e alla carta.
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