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Estamos aquí para ir a la peluquería

“Non siamo qui per tagliare capelli”. Così diceva Jack, attore australiano stella di Bollywood, in un’estate a Pisciotta, Cilento. Era la sua replica a chi gli proponeva di bere una birra: sottolineava la totale dedizione alla causa Peronista, intesa come molte Peroni al bar. Che credevamo noi, che era venuto forse a farsi fare una spuntatina? Birre! Birre! Birre!
La saggezza popolare tradusse la frase in spagnolo, lingua molto più adatta a un tormentone estivo, e si prese la libertà di non farlo alla lettera, ma di sfruttare giustamente le potenzialità musicali di una parola in particolare: “No estamos aquí para ir a la peluquería“, divenne.

Si può dire che io invece sia stato condannato, dal Cielo, a “ir a las peluquerías”. Gli dei non sono stati favorevoli in questi tre mesi a Buenos Aires, e mi hanno spinto senza pietà fra le grinfie di mostri disumani. Oggi credo sia tutto finito: sono approdato a Itaca.

Il primo fu Antonio, calabrese di ottant’anni che piangeva recitando poesie sulla mamma attribuendole a Manzoni, e tagliava non con le forbici, no, ma con un rasoio allisciato su una striscia di cuoio. Raccontava la sua vita mentre il sapone colava per la schiena. Optava per un taglio più corto di quello richiesto, perché i miei capelli gli sembravano “schifosi”. Voleva viaggiare per il mondo, ma comprava i biglietti solo “negli sportelli della fantasia”.

Un mese dopo fu il turno del Paraguayo. Mi avvertì il lavandaio sotto casa: “Te corta la cabeza“. Ci andai lo stesso. E la testa me la tagliò davvero, in tre minuti. Il mio scalpo ora è esposto fuori alla sua tenda come monito per le giubbe rosse.

Mi lasciò con delle chiazze in testa. Andai quindi da un altro barbiere, in un locale minuscolo: Sebastián, 21 anni. Gli affidai un compito facile: un bel caruso, di quelli che piacciono alle ragazze. Così fece, missione compiuta.

Pensavo di aver trovato finalmente pace, fino a ieri sera, poche ora prima del mio nuovo taglio, quando mi è arrivato il messaggio di un amico al quale avevo consigliato Sebastián: richiesta di risarcimento danni nei miei confronti, minacce e una cruda bestemmia.

Tutto da rifare. Dove andare adesso? Da settimane avevo in testa un’idea.

Rodrigo Petrarca

Rodrigo Petrarca

Rodrigo Petrarca” doveva essere il prossimo barbiere. Ogni giorno ci passo. Rodrigo Petrarca. Rodrigo Petrarca. Un ballerino di Flamenco. Un boss della Mara Salvatrucha. Un grande ciclista. Il capocannoniere della Serie B. Uno con baffi e pizzetto appoggiato a un portone di legno, di sera, illuminato da un lampione a basso voltaggio (però quest’ultima immagine, c’è da dire, vale per ogni Rodrigo).
Rodrigo Petrarca.
Un’amica suggerisce: “Mi sa di cantautore di musica leggera latina”. Un’altra specifica: “Di cuarteto, di cumbia cordobesa”.
E invece Rodrigo Petrarca è un barbiere, però mi spiace, queste righe non parleranno di lui. Resterà solo un’idea, una proiezione. Forse Rodrigo Petrarca taglia i capelli al ritmo di Paco De Lucía. Forse ti tatua anche una sirena, a tua insaputa. Non lo sapremo mai.
Da Rodrigo non sono andato, e giuro che sono rimasto a guardare a lungo i due teschi dell’insegna, un caballero e una dama, molto messicani. Ho immaginato di entrare accompagnato dal suono dei Mariachi, scolarmi un litro di tequila e piangere duecento amori, durante il taglio di un comprensivo Rodrigo.
Poi ho pensato allo scalpo, alla vergogna. E ho proseguito dritto per il quartiere.

Quando sono entrato da Pablo Sebastian Gallardo, la prima cosa che ho visto è stata una maglietta dei Red Hot Chili Peppers, e mi sono tranquillizato.
L’aveva addosso Juan, amico del barbiere. Bella maglietta, gli ho detto, e lui Sì, poi abbiamo parlato dell’unica certezza che ho, e cioè che da quando se n’è andato John Frusciante non vale la pena sentire i Red Hot. E mi sono ritranquillizzato.
Juan se n’è andato, ché aveva da provare per un concerto reggae. Rimasto solo con Jorge (non ha lo stesso nome dell’attività), ho iniziato subito a sparlare male dei precedenti barbieri. Ridevo, ma mi sentivo un po’ in colpa.

13228008_10154212145850990_1887523651_nCosì, mentre Jorge tagliava con cura, chiedendomi a ogni millimetro se poteva avanzare, io pensavo un po’ anche ad Antonio, alla sua epopea interminabile, al disprezzo per la mia chioma, al sudore sulla canottiera e sulla camicia salmone con cui aveva camminato, come ogni giorno, quattro chilometri e mezzo per arrivare al lavoro.
Il pensiero è volato poi al paraguayo, alla ferocia con la quale aveva difeso la sua terra dall’arrivo di un cliente, al suo diritto ancestrale di fare in
casa sua quello che gli pareva, compreso tagliare i capelli un po’ a cazzo.
E anche, come una passante di De Andrè, ad “Adalberto“, il barbiere che vidi in viaggio a Rosario. Avrei potuto chiedergli cosa si prova a portare quel nome, che sta al mio come la lettera di un amanuense sta a una lettera normale.

Ma Jorge è Itaca, non c’è dubbio. Non tanto perché ha fatto proprio un buon taglio. Piuttosto perché  ha parlato di calcio per gran parte del tempo, come dovrebbe fare ogni buon barbiere. Altro che sportelli della fantasia, altro che Manzoni. C-A-L-C-I-O. Ha citato Maradona, raccontandomi quella volta che investì un giornalista con la macchina, e aprì lo sportello inveendo: “Ma come ti salta in mente di mettere il piede sotto la mia ruota?”.
Jorge una volta l’ha anche toccato Maradona, al teatro.
E, sulla macchinetta con cui mi ha accorciato la barba, aveva anche lui due bei teschi. Come sull’insegna di Rodrigo Petrarca.

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