© Alice Basiglini

Baobab e altre italie: piccolo viaggio

[Foto di Alice Basiglini e Jessica Guidi]

«You have to live a happy life», canta un ragazzo africano in metropolitana. La canzone dura dieci minuti. Stessi accordi, stessa melodia. Rende allegro il mattino. Chitarra in mano, canta e ondeggia da un lato all’altro. Lo imitano due bambini biondi, caschetto che si può dire alla Nino d’Angelo, dato che siamo a Napoli.
Nello zaino ho del cibo per quelli del Baobab. Devo andare a Roma per presentare un libro alla Libreria del Viaggiatore, e ho pensato di passare a trovare le vittime di una lunga persecuzione.
Nicola Lagioia scriveva così su «Internazionale», più di due anni fa: A volte ho l’impressione che non di rado chi si scalda tanto in tema di migrazioni – sui giornali, on line, in tv, per radio – sia convinto che la sua opinione faccia parte di un argomento mediatico, politico o di semplice costume o schieramento culturale prima ancora di essere ancorata a un dato di realtà. Invece è la realtà che nasce sempre per prima. Frequentarla, porta inevitabilmente a cambiare il proprio punto di vista. Chi si credeva tollerante può per esempio scoprirsi un po’ razzista. O magari succede il contrario.

©Alice Basiglini

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Voglio frequentare la realtà, stanco del dibattito mediatico. In treno sono emozionato: come mi scoprirò io? Il mio vicino parla a telefono con una qualche “caserma” e mi sorprendo, dopo lo sgombero dell’altro giorno, “dall’altra parte”. La solidarietà è un reato, e dai pescatori di Lampedusa a Mimmo Lucano chi vuole giustizia è spinto a sentirsi, ogni giorno di più, fuorilegge. Sento l’impulso di chiedergli come valuti questo e i ventuno sgomberi precedenti. Ma ho paura di arrabbiarmi. Ho paura della nausea di fronte a un’altra risposta fuori luogo, a un rigurgito xenofobo, a una parola che dia credito alle menzogne della propaganda filoleghista.
Più in là un uomo apre «il Mattino»: Rifiuti, clandestini, camorra: il governo scende in campo per Napoli. In quest’ordine. Non Camorra, rifiuti, accoglienza e nemmeno Camorra, rifiuti, disuguaglianze o Camorra, rifiuti, dignità. Ecco contro cosa combattere: rifiuti, rifiuti umani e poi anche un po’ di camorra, se non disturbiamo troppo. Clandestini: una categoria creata ad arte anni fa, una sola accezione per un universo di diverse esperienze umane. Le maglie della rete sempre più larghe: tutti clandestini, tutti irregolari, vagabondi e delinquenti. Ricattabili, sfruttabili, combustibili elettorali. Anche a sinistra: ministri che hanno finanziato torture e morti lontano dagli occhi e lontano dal cuor. Penserà il lettore del giornale tutto questo? Penserà?

Alla stazione Tiburtina sono nervoso. Mi perdo, esco dal lato sbagliato. Ritorno sui miei passi, indirizzato in malo modo da un burbero lavoratore della metro. È un giorno di sole, ma bisogna indossare giacca e sciarpa. Arrivo al piazzale Spadolini. Dietro tristi aiuole, su una piattaforma di cemento di due-trecento metri, vari capannelli di persone. Il primo che incontro – e che si scusa ma deve andare a dormire, ha la febbre alta e poca voce – è proprio Andrea Costa, portavoce di Baobab, ma lo scoprirò dopo. Consegno il cibo e mi metto a disposizione. Mi dà il benvenuto anche Saul, ivoriano, sui trent’anni o forse meno. Parla un buon italiano, ma ha un modo strano di pronunciare le parole: muove poco le labbra, preferibilmente con una lenta sigaretta in bocca. Penso all’“italian idiot”, che di fronte a questi materassi umidi, le coperte, i cartoni sul pavimento freddo, si azzarderebbe a pensare: “Pure le sigarette si concedono!”. E le parabole Sky, vogliono tutto, non vengono a lavorare, nullafacenti, viziati. No? No. Saul è un gran lavoratore: «Sembra che facciano di tutto per farci andare a rubare, ma io non ci penso proprio! Io lavoro!». Sta aspettando, come molti altri qui, un documento sempre più difficile da ottenere. Aspetta, con gli occhi fissi su di me dietro gli occhiali beige, un po’ di pace. Perché, mi chiede, non gliela concedono?

Saul si allontana e mi si avvicina un altro ragazzo. Trentotto anni, egiziano. Mi chiede se posso dare un’occhiata alle sue cose (una grossa busta blu) mentre va alla Caritas vicino Termini. Gli dico che non posso, che tra poco me ne andrò. Restiamo a parlare. Ha lo stesso faccione, la stessa bocca e lo stesso pizzetto di mio padre. Anche piccoli difetti di pronuncia, simili. Suppongo che quindi ci assomigliamo un po’. Passano due ragazzi e, indicando il mio interlocutore, mi dicono sorridenti: «Grande arabo e grande lavoratore!». Lo è: Olanda, Francia, Germania. Gli ultimi impieghi a Francoforte e Berlino come imbianchino. In Italia viene ogni due anni, quando gli scade il documento, per poi ripartire. Solo a questo punto si presenta: «Mi chiamo George, come Bush!». Gli suggerisco di cambiare presentazione. Su Salvini mi chiede: «Perché è da tutte le parti? Perché lo votano?». Perché, gli dico, convince una nazione in crisi e sempre più ignorante, che il problema sei tu, sei tu il pericolo, che dormi per terra al freddo. Annuisce con un sorriso di pace. Lui, cristiano, se n’è andato dall’Egitto perché lì, dice, «non è come Roma contro Juventus, lì le rivalità diventano una guerra. Gli Europei danno le armi al nord Africa, e poi se ne fregano». Vedo passare il fantasma dell’ex ministro Minniti. George va alla Caritas e mi saluta con una mano sul cuore, e un «Ciao, grazie, fratello».

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Tre ragazze sui vent’anni parlano di Vasco Rossi a tre ospiti di Baobab. Si passano gli auricolari e muovono i piedi a tempo. Io intanto converso con Céline, volontaria da più di un anno. Anche lei ha domande senza risposta: dove va adesso questa gente? Perché il comune di Roma si decide ad accoglierli solo dopo lo sgombero? Ma ci si rende conto anche solo dei problemi psicologici di questi ragazzi, di che cosa significhi fare il viaggio che hanno fatto e arrivare in una terra inospitale? Concordiamo che quest’ultimo aspetto è decisivo: basterebbe conoscere una, una sola storia di lacrime notturne a cielo aperto e di ricordi delle prigioni libiche e dei morti in mare, perché chi vota odio smetta di farlo. Siamo solidali con la depressione dei nostri amici lasciati dalla ragazza, e non di chi vive miseria ed esilio.
Mi racconta delle attività del Baobab, che prima o poi, chissà dove, torneranno: le lezioni di italiano e i rifugiati concentratissimi, o le visite guidate ai musei, dove questi viaggiatori rimangono in estasi per la bellezza del paese. Si aspetta che presto li sgomberino anche da qui, e che i centri di accoglienza dove il comune ha tardivamente sistemato i ragazzi li accolgano solo per pochi mesi: poi punto a capo. Non le piace chiamarli “migranti”: sono lavoratori. Questa è una lotta contro i deboli, è solo un caso che siano africani. E infatti al Baobab sono venuti a bussare anche sfollati italiani, in fuga da altri sgomberi e altre miserie.

Fode ha un bracciale con il suo nome, un ottimo italiano e un grande stile. Fa un poco lo spaccone quando torna dal lavoro. «Sei stanco?», gli chiede Céline. «Sono nero, non sono mai stanco», risponde lui. Parlano di un aereatore guasto, e Céline lo punzecchia, dubitando delle sue capacità di ripararlo. «Quando vedrai il mio lavoro sull’aereatore, dice, non potrai più parlare», replica. Mi conquista subito. Gli chiedo di dov’è, ma si dice grande sostenitore del Panafricanismo, e preferisce rispondermi che viene dall’Africa. Ci racconta, dopo poche battute, del papà che gli morì fra le braccia, e che gli diceva: «Non fare del male a nessuno, e vivrai bene». Matteo Salvini e chi lo vota non hanno mai ricevuto quest’insegnamento, altrimenti sentirebbero vergogna.

Alla fine, con Saul, Fode, Céline, Cristina e altri ancora, si parla di Grecia, di Napoli, di centri storici. Si chiacchiera fra amici come in un salotto, ma non è un salotto, ed è solo per la forza di questi uomini, oltre che di volontarie e volontari, che le facce sono distese, e si ride serenamente. A loro è negato un rifugio, ma sanno comunque accoglierti nel loro nulla e riempirlo di pace.

Saluto, abbracci, a presto.

Il giorno dopo, al mattino, scendo via Trionfale. Un ragazzo africano spazza le strade ed espone un cartello in cui spiega chi è, e che si darà da fare per tenere pulito l’isolato.

In treno verso Parma penso alle ragazzine che canticchiavano Vasco Rossi. Leggo che si è diffusa una bufala secondo cui il cantautore avrebbe negato a Salvini il diritto a cantarla, perché fascista. Una bufala facilmente verificabile. Una bufala, però, che è meno assurda di quanto sembri. Mi piacerebbe fosse vera. Perché quello che i partiti al governo stanno negando agli esseri umani che ho conosciuto oggi è un po’ di normalità. Un briciolo, un barlume di normalità: un luogo dove stare, studiare, imparare. Allora sarebbe giusto negare a Salvini la sua normalità. Canti “Faccetta nera”, ché “Vita spericolata” ce la teniamo noi. Per fortuna ci sono quelle ragazzine e un’Italia, forse la maggioranza, che sa condividere ancora.

Sui treni del nord c’è già afroitalia. Alla stazione di Parma, dal finestrino, vedo una grande scena: l’altoparlante snocciola le fermate del regionale, e un gruppetto di ragazzi neri ripete in coro le fermate a memoria, ballandole come fossero un rap. Su Castelfranco Emilia sembrano esaltarsi particolarmente. Sono belli scemi, li ammiro.

Un altro avviso dall’altoparlante: nei prossimi giorni ci saranno ritardi perché devono far saltare «un ordigno bellico risalente alla Seconda Guerra Mondiale». Un tale annuncio fa sembrare quegli anni bui ancora più vicini. Ma è da un po’ che è così. Sul cellulare scorrono notizie che qualche anno fa sarebbero state fantascientifiche: per esempio alla Commissione diritti umani del Senato c’è ora una sottospecie di hitleriana. Intanto entro nel gruppo dei volontari di Baobab, dove ci si organizza per cibo, corsi, assistenza. Ci si allarma per le fake news di giornalacci, ci si dà man forte, ci si informa sulla sorte degli ospiti. Dai sessanta milioni di italiani, che Salvini dice stiano con lui, iniziamo a sottrarre questi.

Sottraiamo anche quelli presenti alla presentazione del mio libro, con i quali, invece di Colombia, finiamo col parlare di migrazioni mediterranee. Da sottrarre anche tutti gli emiliani, veneti, pugliesi, con cui finisco a bere qualcosa. Eppure la propaganda salviniana mostra tutti gli italiani dalla sua parte! Pochi giorni fa, ho litigato su Facebook con un amico di famiglia trevigiano, uno tutto scherzi e pacche sulle spalle: mi diceva che in Veneto sono così, che non li capiamo, che magari sono un po’ violenti con le parole ma alla fine tengono solo alle strade pulite e ai conti in ordine. Intanto i suoi amici commentavano: “feccia africana”,“marmaglia puzzolente”. Ma lui aveva da ridire solo con me.
I veneti che ho conosciuto io, nella mia famiglia, nelle librerie di Padova e Verona, all’Università, sono tutt’altro. Soprattutto i giovani, prime vittime di questa generalizzazione. E quando i vecchi invecchiati d’odio moriranno (perché moriranno), forse le loro convinzioni moriranno con loro, e avranno perso la splendida occasione di vivere in pace.

Davanti al lambrusco si parla di bugie e di sgomberi che vengono presentati come risolutivi: tutti su un bell’aereo di ritorno verso il loro bel paese, aiutati a casa loro. E invece il risultato è solo più gente per strada e più insicurezza. A che serve? Alla propaganda di chi non ha altri argomenti per parlare al paese.
Davanti al lambrusco diciamo che noi italiani, emigrati in condizioni anche migliori, abbiamo messo su ben altre forze criminali. Sembra che negli ultimi anni, anche con i governi precedenti, si voglia spingere coloro che vengono in Italia a delinquere. E che questi si neghino, resistano alla tentazione molto più di quanto noi italiani abbiamo fatto in passato.
Davanti al lambrusco Luca mi parla di Said, marocchino, assistente nel suo centro di protesi uditive. Quando Luca è solo con i pazienti, e qualche vecchio risentito dà ragione a Salvini, ne asseconda annoiato le demenze. Ma quando c’è Said no, si sente in dovere di difenderlo, anche se lui gli dice di stare tranquillo, che è abituato. Luca sbotta lo stesso: «Ma Said è nato qui, anche più a nord di voi! Ha studiato più di me, occhio che un giorno potreste essere nelle sue mani!».

Il giorno dopo sono in stazione, e aspetto il treno per Napoli. Fa freddo: bastano quindici minuti di ritardo e già mi muovo nervosamente. È solo mezzogiorno, farà più freddo. Stanotte mio fratello George, grande lavoratore egiziano, dormirà sotto un cielo senza stelle, e un’Italia feroce potrebbe cacciarlo anche da lì.

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